Lavoro e previdenza sociale

Offende la dipendente alla presenza dei clienti? Va condannato per maltrattamenti

Per la sussistenza del reato di maltrattamenti è sufficiente qualsiasi condotta di abituale prevaricazione, tale da infliggere al destinatario vessazioni e sofferenze, fisiche o morali, in tal modo imponendogli un regime di vita persecutorio o umiliante ed un clima di abituale sopraffazione. Una siffatta condizione può realizzarsi anche attraverso il reiterato ricorso ad offese o al turpiloquio nelle relazioni interpersonali, soprattutto quando ciò avvenga in presenza di colleghi di lavoro della vittima e di avventori del ristorante, inevitabilmente compromettendo la dignità e la reputazione di costei (Cassazione penale, Sez. VI, sentenza 20 gennaio 2022, n. 2378).

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Conformi

Cass. pen. sez. VI, 31 gennaio 2019, n. 4935

Difformi

Non si rinvengono precedenti in termini

Con sentenza del 2 marzo 2017, il Tribunale di Udine aveva condannato C.V. per i delitti di atti sessuali e di maltrattamenti in danno di H.A., dipendente presso il ristorante da lui gestito. La Corte di appello di Trieste, con la sentenza impugnata, ha assolto l'imputato dal delitto di atti sessuali, per insussistenza del fatto, mentre ne ha confermato la condanna per i maltrattamenti, con le consequenziali statuizioni risarcitorie ed indennitarie nei confronti della H., costituitasi parte civile.

Ricorre per cassazione l'imputato.

Con un primo motivo, denuncia violazioni di legge e vizi di motivazione della sentenza, in relazione, nell'ordine, ai seguenti profili:

a) la valutazione delle risultanze probatorie: la condanna si fonda sulle dichiarazioni della persona offesa e del cuoco del ristorante; ma l'una è stata reputata inattendibile con riferimento al delitto di atti sessuali ed è animata da intenti speculativi, essendosi costituita parte civile; l'altro intratteneva con costei una relazione, vedendo perciò nell'imputato un suo possibile rivale, ed essendo perciò animato anch'egli da sentimenti antagonisti verso di lui;

b) il diniego delle attenuanti generiche: la Corte d'appello l'ha giustificato negando l'esistenza di elementi positivamente valutabili, in realtà espressamente evidenziati nell'atto di gravame;

c) la sussistenza del reato: non vi sarebbero state, da parte dell'imputato, condotte vessatorie (escluse da due colleghe della querelante, sentite come testimoni), ma, al più, ingiurie o turpiloqui; in ogni caso, non risulterebbe dimostrata l'abitualità delle ipotizzate condotte, facendosi riferimento in sentenza soltanto ad una pluralità di occasioni, elemento di per sé insufficiente a tal fine;

d) il trattamento sanzionatorio: la sentenza ha valorizzato, in proposito, la posizione subordinata della ritenuta vittima rispetto all'imputato, così dando particolare rilievo a quello che, in realtà, è il presupposto del reato;

e) la quantificazione del risarcimento in favore della parte civile, sostanzialmente immotivata.

Il secondo motivo consiste nella violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p. Secondo l'imputazione, i maltrattamenti sarebbero stati la conseguenza della reazione opposta dalla donna agli atti sessuali (baci, palpeggiamenti) dell'imputato. Di conseguenza, la ritenuta insussistenza di questi ultimi avrebbe determinato la diversità dell'ulteriore fatto oggetto di contestazione, essendone venuto meno l'ipotizzato movente. Di tanto, comunque, la sentenza impugnata non avrebbe dato congrua spiegazione.

La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso.

Di quelle rassegnate con il primo motivo di ricorso, la prima, in tema di valutazione dei risultati probatori, non è consentita, poiché è funzionale ad un giudizio di fatto, precluso in questa sede. Peraltro, l'assunto per cui quella del cuoco sarebbe stata una testimonianza di favore non è conciliabile col fatto che costui ha smentito la persona offesa sull'accusa più grave e più direttamente influenzabile dall'asserito legame sentimentale tra loro esistente: quella, cioè, riguardante gli atti sessuali.

La seconda, relativa al diniego di attenuanti generiche, è meramente enunciata. Giova in ogni caso ricordare che, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché non sia contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione. Tale onere motivazionale, nello specifico, è stato adeguatamente assolto, avendo la Corte d'appello ragionevolmente ritenuto di valorizzare negativamente la consapevolezza, da parte dell'imputato, della condizione di subalternità della vittima, pressata dalla necessità di lavorare, nonché l'assenza di circostanze favorevolmente valutabili, in effetti non evidenziate neppure con il ricorso.

La terza censura è manifestamente infondata nella parte in cui esclude la ravvisabilità del reato di maltrattamenti in presenza di sole ingiurie e di turpiloqui. Per la sussistenza di tale delitto, infatti, è sufficiente qualsiasi condotta di abituale prevaricazione, tale da infliggere al destinatario vessazioni e sofferenze, fisiche o morali, in tal modo imponendogli un regime di vita persecutorio o umiliante ed un clima di abituale sopraffazione.

Non v'è dubbio che una siffatta condizione possa realizzarsi anche attraverso il reiterato ricorso ad offese o al turpiloquio nelle relazioni interpersonali, soprattutto perché, nel caso di specie, questo avveniva anche in presenza di colleghi di lavoro della vittima e di avventori del ristorante, inevitabilmente compromettendo la dignità e la reputazione di costei. Non è consentita, invece, la doglianza in tema di abitualità o meno di quelle condotte, in quanto proposta per la prima volta con il ricorso in scrutinio e non anche con l'atto d'appello.

La quarta doglianza, in punto di misura della pena, è manifestamente infondata. In tema di trattamento sanzionatorio il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 c.p., da esso considerati preponderanti, e non si presenti quale frutto di mero arbitrio o di ragionamento del tutto illogico, contraddittorio od immotivato.

Nello specifico, la sentenza non ha valorizzato soltanto la posizione di supremazia dell'agente rispetto alla vittima, coessenziale alla struttura del reato, ma piuttosto la necessità di lavorare di costei e, dunque, la sua condizione di specifica ed accentuata debolezza psicologica, non tipica di ogni vittima di maltrattamenti.

È aspecifica, infine, la lagnanza in punto di entità del risarcimento.

La Corte d'appello ha dato conto espressamente delle ragioni di tale sua determinazione (pag. 10, sent.), con motivazione non irragionevole e, dunque, adeguata, considerando che si tratta di liquidazione fondata su basi equitative. Va ricordato, infatti, che, in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, la valutazione del giudice, affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, è censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio della motivazione solo se essa difetti totalmente di giustificazione o si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria

Esito:

Inammissibile

Riferimenti normativi:

Art. 572 c.p.

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