Risponde del reato di pedopornografia anche chi detiene i file nel cestino del PC

Il reato di detenzione di materiale pedopornografico presuppone la consapevolezza della detenzione di materiale illegale in capo al reo, ma tale consapevolezza può logicamente dedursi dal semplice spostamento dei file all’interno del computer senza che si sia provveduto alla loro cancellazione definitiva. Così stabilisce la Sentenza n. 39458 del 17 maggio 2017 della III Sezione Penale della Corte di Cassazione.

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Conformi

Cass. Pen. Sez. III, 08/03/2017, n. 11044

Cass. Pen., Sez. III, 08/06/2015, n. 24345

Difformi

Non vi sono precedenti citati

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame precisa alcuni indici in presenza dei quali è possibile dedurre che la detenzione di materiale pedopornografico sia consapevole e, dunque, penalmente rilevante, e nel contempo approfondisce la questione della concessione in sede di legittimità della scriminante di cui all’articolo 131 bis del codice penale.

IL CASO: veniva tratto a giudizio e condannato in primo grado un individuo che aveva acquisito telematicamente del materiale pedopornografico rinvenuto, poi, all’interno del suo personal computer durante gli accertamenti della polizia giudiziaria.

Nello specifico, l’imputato aveva utilizzato un programma di file-sharing con il quale aveva scaricato diversi file di contenuto pornografico con protagonisti soggetti minorenni.

La condanna di primo grado veniva poi confermata anche in grado di appello.

IL RICORSO: contro la sentenza emessa dalla Corte d’Appello proponeva ricorso in Cassazione l’imputato.

Nell’atto di impugnazione veniva anzitutto contestata la sussistenza del reato contestato in relazione all’elemento psicologico.

Veniva sottolineato, al riguardo, che l’articolo 600 quater c.p. punisce solo le condotte caratterizzate da dolo diretto o intenzionale e non anche da dolo eventuale.

Nel caso di specie erano sì stati rinvenuti sul computer dell’imputato dei file dal contenuto pedopornografico, ma non vi era prova che gli stessi fossero stati scaricati consapevolmente dallo stesso.

Infatti, era stato utilizzato il programma di file-sharing denominato “emule” attraverso il quale era stato ricercato materiale pornografico e non pedopornografico, come poteva desumersi dalle chiavi di ricerca utilizzate.

Il programma aveva poi scaricato tantissimi file, tra i quali inconsapevolmente vi erano anche file di contenuto pedopornografico, e li aveva salvati automaticamente sul PC, ma il contenuto illegale di alcuni di questi non era noto all’imputato.

Ad ulteriore riprova di quanto affermato veniva evidenziato che i file di cui sopra dal momento in cui era terminato il download al momento in cui era avvenuta la perquisizione ed il sequestro non erano più stati spostati né visionati.

Il gravame si articolava poi in un ulteriore motivo con cui veniva censurata la mancata applicazione dell’articolo 131 bis del codice penale.

Considerato che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ha natura sostanziale e, dunque, è applicabile anche ai procedimenti in corso, compresi quelli pendenti in sede di legittimità, veniva sottolineato come la Corte di Cassazione possa rilevare d’ufficio la sussistenza delle condizioni per la concessione della scriminante, anche se la stessa non era stata richiesta in giudizio d’appello pur essendovene la possibilità.

In particolare, richiamando la pronuncia delle Sezioni Unite n. 13681/16, veniva evidenziato che, in presenza di un ricorso ammissibile, la Suprema Corte possa anche rilevare d’ufficio l’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. laddove i presupposti per detta applicazione siano immediatamente rilevabili dagli atti.

LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE: la Suprema Corte rigetta il ricorso in quanto infondato.

In ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo richiesto dalla fattispecie, la Corte rileva che la motivazione con cui i giudici di merito avevano ritenuto che la detenzione dei file pedopornografici fosse consapevole e, dunque, punibile, è del tutto logica ed in linea con i principi consolidati della giurisprudenza di legittimità al riguardo.

La Corte territoriale, infatti, aveva posto in rilievo come il nome dei file rendesse assolutamente inequivocabile il contenuto pedopornografico degli stessi.

Vero è che le modalità di download dei così detti programmi di file-sharing possono determinare il salvataggio involontario di file diversi da quelli voluti, ma a fronte di nomi che rendono evidente la connotazione pedopornografica di quanto scaricato una presunzione di buona fede risulta insostenibile e, conseguentemente, non può essere dedotta una mancanza di consapevolezza da parte del soggetto agente in merito alla illiceità della detenzione.

Oltre ciò, veniva messo in rilievo il fatto che l’accertamento condotto dalla Polizia postale aveva fatto emergere una ulteriore circostanza significativa al fine di dimostrare che l’imputato detenesse in maniera del tutto consapevole il materiale illegale, ovvero che i file erano stati spostati dall’utente in una cartella diversa da quella in cui erano stati scaricati in maniera automatica dal programma di file-sharing e senza essere stati poi eliminati definitivamente dal computer.

Al riguardo, sotto il profilo giuridico, la Suprema Corte sottolinea come la giurisprudenza di legittimità individui come indice di una ricezione accidentale di file pedopornografici e, dunque, non sorretta da dolo diretto, soltanto la condotta di chi abbia provveduto repentinamente alla cancellazione definitiva dei file, precisando che anche lo spostamento dei file nel così detto “cestino” non fa venir meno la penale responsabilità, poiché in tale cartella i file continuano ad essere nella concreta disponibilità dell’utente del PC potendo essere recuperati con estrema semplicità.

In sostanza, solo una eliminazione irrevocabile dal computer che risulti subito dopo il download o quanto meno dopo il primo accesso dell’utente al file illegale può essere valutata come indice di buona fede, poiché determina il concreto venir meno del possesso del materiale illecito con delle tempistiche tali da poter escludere una detenzione consapevole che sia rilevante sotto il profilo penale.

Quanto invece alla mancata applicazione della scriminante del fatto di lieve entità di cui all’art. 131 del codice penale, la Suprema Corte ritiene infondata la censura, evidenziando come il ricorrente abbia male interpretato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità sul punto.

In primo luogo, infatti, la Corte precisa che la questione dell’applicabilità dell’art 131 bis c.p. non può essere dedotta per la prima volta in cassazione se l’articolo era già in vigore in pendenza dei gradi di merito e, in assenza di specifica richiesta, non grava sul giudice di merito alcun obbligo di pronunciarsi in merito alla sussistenza o meno di tale causa di esclusione della punibilità.

Inoltre, risponde al vero che la Corte di Cassazione possa rilevare d’ufficio l’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto a condizione che i presupposti per la sua applicazione siano immediatamente rilevabili in atti senza che sia necessario compiere ulteriori accertamenti, ma nel caso in esame non si verte in una simile situazione.

Infatti, la Corte territoriale aveva espressamente ritenuto che la pena irrogata in primo grado fosse già mite, considerato il numero di file scaricati e l’assenza di resipiscenza da parte dell’indagato, con ciò escludendo implicitamente la sussistenza di una particolare tenuità del fatto: ciò esclude, pertanto, l’immediata rilevabilità dei presupposti di cui all’art. 131 bis c.p. dagli atti e, conseguentemente, la possibilità di un intervento della Suprema Corte in merito.

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