Il segreto del faraone

In una storia che mescola superstizione, leggenda e antica sapienza organizzata nell’antica civiltà egizia, Silvia Vitrò inocula una sottile rivincita riparatrice dentro  fatti e fenomeni di questa epoca recente. Nel contesto delle distruzioni dei monumenti e delle vestigia dei faraoni, perpetrate dalla furia fanatica  fondamentalista, a ritroso il giurista narratore non giudica, sta alla larga da ogni censura e registra piccoli avvicinamenti al passato. Provocando l’incontro tra testimoni muti, in attesa di vendetta e visitatori incauti, puniti dalla forza del mito. In attesa dei  luoghi del presente che facciano la loro parte, altrove, ancora una volta la letteratura anticipa la sanzione.

I)            Tutti dicevano che sarebbero arrivati presto. E che avrebbero distrutto ogni tesoro d’Egitto.

Statue, sarcofagi, sfingi. Qualsiasi opera d’arte sarebbe finita sotto i colpi della loro ira funesta.

Anche le statuette gemelle di Akmet del museo di Buhen.

Erano il reperto archeologico cui teneva di più. Aveva partecipato da giovane alla spedizione che le aveva portate alla luce, nella piramide di Gebel Barkal, laddove il Nilo disegna un’ampia ansa, lambendo il deserto nubiano.

Lunghi giorni di scavi, per poi infilarsi nei cunicoli soffocanti della tomba del Faraone.

Non era mai stato molto coraggioso e lo spaventava l’idea di esplorare le gallerie strette e buie della piramide. Poi c’era quella vecchia storia della maledizione. L’aveva ascoltata durante gli scavi da un gruppo di anziane guide del posto, una sera, accanto al fuoco acceso per la cena. Abdul, Feth, Salim, tutti con occhi lucidi e turbati, avevano raccontato della tragica morte di Akmet, la sposa del Faraone, e del divieto di violare la sua tomba finchè non fossero passate duecento eclissi di luna.

Gli scavatori arabi si erano rifiutati di entrare nella piramide, ma quando i suoi colleghi archeologi ne erano usciti illesi, aveva dedotto che il periodo delle lune fosse ormai trascorso e, facendosi forza, si era infilato anche lui nelle gallerie tenebrose. Tanto, una maledizione che si rispettasse avrebbe dovuto colpire solo i primi che la violavano, non si era mai sentito di una strage di massa ai piedi di una piramide!

Dopo un lungo percorso soffocante nei cunicoli, era arrivato alla stanza della sepoltura. E lì, accanto la tomba della sposa del Faraone, le aveva trovate.

Di un verde scuro, adornate di geroglifici, in perfetto stato di conservazione. Riportate alla luce parevano emanare una luminosità color smeraldo.

Patrimonio dell’umanità, difese dalla legge internazionale, come tutto il complesso di Gebel Barkal, sito Unesco.

Era stato il suo un amore a prima vista. Era riuscito, poi, a diventare il direttore del museo che le custodiva.

Gioia pura.

            Fino a quel giorno, quando l’arrivo della furia distruttrice degli jihadisti sembrava imminente.

Avrebbe dovuto escogitare qualcosa. Anche a rischio della sua stessa vita.

Era giunto il momento di farsi venire quel coraggio che non aveva mai avuto prima.

II)            “Ametista e pasta di turchese. Solo 40 euro. Un affare. Una collana così non la trovi in città. Sono pietre vere. Direttamente dal mio paese. Compra gioielli. Ti faccio vedere anche gli anelli. Questo è un rubino afghano. Vedi la luce scarlatta che ha. Solo 60 euro. Un rubino puro. Oppure l’anello d’argento con la giada incastonata. E’ indiano, lo si riconosce dal disegno a rombi sulla parte esterna, ai lati della pietra. Compra gioielli!”.

L’acqua cristallina mordeva svogliatamente la sabbia bianca della spiaggia maremmana e ogni volta che si ritirava scopriva gusci vuoti di conchiglie e frammenti di alga bruna.

La turista olandese guardava con interesse la merce offerta dal ragazzo con la pelle olivastra ed era indecisa tra la collana violetta e l’anello d’argento. “Però uno sconto me lo fai, vero?” chiese in un italiano stentato. “Facciamo tutti e due al prezzo di uno”.

“No, mi dispiace, così è troppo poco. Posso togliere 20 euro, non di più”.

“E se fossero 30 euro?” insisteva la donna, strizzata in un costume bianco a fiori rossi, che la faceva sembrare una grossa camelia.

Un gruppo di gabbiani sorvolò le trattative in corso e la brezza marina andò a disturbare un cespuglio di gigli da spiaggia e le vespe che vi ronzavano intorno.

            Suo padre faceva il macellaio a Rawalpindi.

Lui lo aiutava saltuariamente. Aveva imparato a distinguere i vari tagli di carne e a fare i conti del negozio. Ma non era la sua vita. Ogni tanto spariva per qualche tempo. Ricompariva quando aveva finito i soldi o aveva bisogno di non farsi vedere in giro.

Perché quello che faceva non sempre era lecito. Almeno secondo la legge del suo Paese. Politica. Il padre lo aveva avvertito di non cacciarsi nei guai. Ma lui niente, non era abbastanza prudente e si era iscritto al partito BNP, quello dell’opposizione. Nulla di molto importante, riunioni, volantinaggio. Ma era abbastanza per entrare nel mirino delle forze governative. Il suo nome era in qualche elenco, la polizia lo teneva sotto controllo.

Anche se non era mai stato arrestato, né imputato di alcun reato.

Fino a quella sera, una notte scura di mezza estate, quando lui e il suo amico Siat erano stati fermati sulla strada verso Rawalpindi da una camionetta grigia, dalla quale era sceso un gruppetto di uomini in tuta mimetica e anfibi.

Li avevano trascinati verso un bosco, gli avevano messo un sacco in testa e giù bastonate a volontà, sulla schiena, nelle gambe, e pugni allo stomaco.

Nulla di ufficiale. Nessun arrestato. Solo un avvertimento.

Dieci giorni dopo, rimesso più o meno in sesto, suo padre lo aveva mandato in Europa, pagando diecimila rupie a un intermediario, che gli aveva allungato documenti falsi per prendere l’aereo e qualche contatto utile per i primi tempi.

Destinazione Amsterdam.

            Come c’era finito su quella spiaggia toscana?

Era passato solo un anno dalla sua fuga dal Pakistan, ma gli sembrava già trascorsa una vita intera.

Prima ancora di uscire dall’areoporto di Amsterdam si era ritrovato senza documenti e senza soldi.

Spesso aveva cercato di ricordare come fosse accaduto, forse quel tipo che lo aveva urtato prima dell’uscita, oppure la mendicante che lo aveva quasi abbracciato vicino alla fermata dell’autobus.

Subito dopo la scoperta del furto, mentre stava cominciando a disperarsi, gli si era fatto vicino un arabo sulla quarantina, ben vestito e sfoggiante un largo sorriso bianco.

“Problemi? Posso aiutarti?”.

Proprio al momento giusto. Si era poi chiesto, in seguito, se non fosse stato tutto architettato ad arte.

Da allora era sembrato facile.

Un alloggio ad Amsterdam, un lavoretto come aiuto cuoco e le lezioni.

Perché queste, aveva detto l’arabo, che si chiamava Ahmed, erano molto importanti, servivano per capire il senso della vita. E quello della morte.

Due giorni a settimana, nella moschea vicino al porto, con l’Imam arabo-olandese che insegnava a lui e ad altri giovani immigrati il Corano come non lo avevano mai imparato prima. Come se fosse l’unica dottrina al mondo. Senza incertezze e dubbi. Senza discussione.

Settimana dopo settimana, dentro gli si cominciava a creare un vuoto, che l’Imam riempiva con voce dolce e autoritaria, arrivando fino alla parte più profonda della sua mente.

Intanto Ahmed si faceva sentire sempre, ripetendogli spesso che al momento opportuno doveva essere pronto. Non gli aveva spiegato nulla di più. Né lui aveva osato fare domande.

Dopo qualche mese gli aveva detto che avrebbe cambiato lavoro. Vendita di gioielli sul mare italiano. Nuovo passaporto, un po’ di soldi, il viaggio nel sottofondo di un Tir ed ecco la spiaggia assolata della Maremma toscana.

Una sistemazione provvisoria. Più vicino al luogo della missione, aveva specificato l’arabo.

“Compra gioielli, guarda questa collana, i rubini, le pietre del mio paese. Compra braccialetto e anelli!”

Poi un giorno Ahmed aveva chiamato: “È ora di partire”.

III)            Come era morta Akmet. La sposa del faraone.

L’interpretazione dei geroglifici non era stata facile, ma alla fine si era capito.

Condotta al matrimonio quando ancora bambina, la giovane regina non era riuscita ad adattarsi a vivere tranquillamente accanto ad uno sposo di mezza età. E il suo corpo sacro per l’Egitto non lo era più stato dopo che tra le guardie personali del Faraone era arrivato Menur, alto, scuro, con occhi profondi e incredibilmente attrattivi.

Ma le mura avevano orecchi, i corridoi del palazzo reale avevano occhi e il vento del Nilo trasmetteva le voci. La storia era stata subito scoperta. La vendetta del Faraone era stata la più crudele.

L’uomo che aveva violato la sacra persona della regina venne fatto a pezzi e gettato con ignominia nel fiume.

Lei chiusa viva nella sua augusta sepoltura, nella piramide sulla quale avrebbe poi per millenni aleggiato la scura ombra della maledizione.

E le due statuette, le sue adorate statuette, erano state messe lì, nella tomba, a guardia della fedeltà della sposa, perché nell’aldilà non osasse comportarsi come aveva fatto in vita.

E se qualcuno avesse di nuovo violato il sacro corpo, la luce che emanavano gli occhi delle due statue si sarebbe fatta rossa.

            “Tutte fandonie”, soleva ripetersi lui, per non cedere ai timori.

“Ma è scritto sulla parete delle tombe, nell’ultimo vano della piramide, direttore Kaled” gli diceva il suo segretario.

Balle. Non voleva crederci.

E però ogni sera, prima di chiudere il portone del museo, andava a controllare quegli occhi. Li aveva sempre trovati di colore smeraldo. Con sollievo.

            Ora li aveva messi al sicuro. Nel luogo più adatto. Lì, difficilmente qualcuno avrebbe potuto raggiungerli.

E comunque aveva usato degli accorgimenti.

IV)            Ogni mattina alzarsi era sempre un po’ più difficile.

Quando pensava di aver già superato ogni sua capacità fisica, gli veniva richiesto ancora di più. Come se non bastasse mai. Come se correre il più velocemente possibile tra un ostacolo e l’altro, scivolare nel fango, appendersi alle travi, precipitare da una sommità, scavare buche nel deserto e nascondervisi dentro costituissero ragione di vita o di morte.

L’addestramento militare cui era stato sottoposto vicino ad Aleppo, in Siria, era durissimo.

Aveva creduto che si trattasse di pochi giorni e invece era continuato per qualche mese.

Alla fine non si sentiva più se stesso, ma solo una macchina pronta alla guerra. E questa sensazione non gli piaceva, non corrispondeva alla sua anima.

E’ vero che aveva fatto politica in Pakistan, ma si era trattato di manifestare e opporsi alla tirannia del governo, di fare qualcosa di utile per la gente.

Qui non si parlava di costruire qualcosa. Solo di distruggere.

            Un mattino non era stato portato con gli altri a fare gli addestramenti. “Ormai sei pronto, puoi entrare nella squadra operativa” gli aveva detto il suo diretto superiore.

Nuova divisa, un mitra in mano, una pagina del Corano nel taschino, dalla parte del cuore, e un gruppo di jihadisti armati fino ai denti per compagni.

            Era iniziato per lui il periodo più buio.

Gli era stata, sì, risparmiata la violenza sugli esseri umani, anche se continuamente gli arrivavano voci su efferatezze di ogni genere, ma non quella sulle cose.

Il suo nucleo era addetto alla distruzione di edifici e opere d’arte. Di ogni epoca e di ogni tempo.

Sotto i suoi occhi abbattute chiese cristiane, statue assire, reperti archeologici egizi, un acquedotto romano, bassorilievi sumeri, una effige del dio assiro, una sfinge del Nilo e molto altro.

Nonostante tutto quello che gli era stato inculcato in testa sulla missione distruttiva da compiere, sulla guerra santa, la necessità di eliminare chiunque non la pensasse come loro e nonostante non si fosse mai attardato ad apprezzare le opere d’arte, annientare le tracce di antiche civiltà e religioni lo angosciava ancora. Molto.

Ma non poteva fermarsi.

Non glielo avrebbero permesso.

V)            Inutile. Coraggioso non lo era mai stato. E non sopportava di soffrire.

Quando erano arrivati a strappargli le unghie delle dita e poi a tagliargli via via parti del corpo, aveva ceduto.

E aveva rivelato il nascondiglio dei reperti più importanti del suo museo. Anche delle sue adorate statuette.

Ma non aveva detto tutto. Questo, nonostante lo strazio, lo aveva fatto quasi sorridere. Mentre gli facevano volare via la testa.

            Un lungo tunnel scuro e soffocante.

I suoi compagni avanti, lui a chiudere la fila. A completare l’opera, terminando la distruzione di statue, sarcofagi e geroglifici già violati dagli altri.

Un caldo insopportabile. Un odore nauseante. Un misto di polvere, di umido e di morte.

Stava picconando una parete rivestita di geroglifici, quando si fermò all’improvviso. Gli era parso di sentire un grido, anzi più grida, soffocate.

Che succedeva?

Provò a chiamare. “Ahmed, Karim, dove siete?”. Niente. Forse era stato solo una sua impressione. Quel luogo cupo e angoscioso, le ombre che si disegnavano sulla parete alla luce della torcia, il respiro sdegnato degli antichi spiriti. Si sentiva intrappolato nella tomba.

Terminò la distruzione della parete e andò avanti. Per i cunicoli della priamide di Akmet.

Anche a lui qualcuno aveva parlato della maledizione. Sciocchezze. Devastavano terre dal Mar Rosso al Mediterraneo, sgozzavano gente, incendiavano villaggi. Che paura poteva fare loro una ammuffita maledizione di cui nessuno aveva mai saputo raccontare gli effetti?

E’ per questo che, quando cominciò ad inciampare nei corpi senza vita dei suoi compagni, non credeva ai suoi occhi.

Chi li aveva uccisi?

Non sembrava esserci nessun altro.

Continuò ad avanzare, anche se il terrore iniziava ad impossessarsi di lui. Ma non riusciva a fermarsi. Come se qualcuno o qualcosa lo spingesse ad arrivare in fondo, alla stanza dove avevano rinchiuso viva Akmet.

Dove il direttore del museo aveva confessato di aver riportato le statuette con gli occhi di smeraldo.

            Ancora corpi. Spesso sgozzati o con la testa sfondata.

Stava per girare in un corridoio laterale, quando un sibilo lo indusse a bloccarsi. Allora lo vide, alla luce della torcia, un filo di metallo che congiungeva una parete all’altra. Se avesse fatto un passo in più, quel filo lo avrebbe trapassato, uccidendolo.

Trabocchetti. Trappole piazzate lungo il percorso. Ricordò il direttore del museo, prima che lo uccidessero. Quel sorriso nel volto devastato dalla tortura. Sapeva che ci sarebbero cascati.

E allora scappare, tornare indietro, lasciare per sempre quella tomba, lasciare la squadra della morte, fuggire dai suoi compagni e dagli eserciti nemici, solo al mondo, in continua fuga, guardandosi sempre alle spalle, senza nome, senza identità, senza patria.

Oppure andare avanti. E che il destino si compisse. Che la vendetta avesse luogo.

Arrivò finalmente alla tomba di Akmet. Era tutto irreale. Il sarcofago bianco, i simboli dorati sulle pareti, l’aria soffocante.

E poi loro. Le due statuette con gli occhi verdi. Riuscì quasi a sfiorarle.

Mentre un sibilo lo avvertiva del pericolo, della grossa pietra che si stava staccando dal soffitto dopo che lui aveva calpestato il simbolo del dio Sole stampato sul pavimento, restò ipnotizzato dagli occhi delle statue.

Si erano fatti rossi.

Di un rosso vivo, brillante, accecante.

Vide quello solo e capì che nessuno sarebbe più riuscito a violare la stanza di Akmet.

Il macigno che lo investì chiuse per sempre l’accesso agli infedeli. 


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