Penale

Nessun risarcimento per ingiusta detenzione all'Imam che scarica materiale propagandistico

L’Imam scarica sul PC file e materiale propagandistico inneggiante alla Jihad: illegittima la sua detenzione ma legittimo negargli il risarcimento. Pronunciandosi su un ricorso contro l’ordinanza con cui la Corte d’appello aveva negato il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione ad un cittadino extracomunitario che, rivestendo la carica di Imam, era stato però accusato di terrorismo internazionale e poi assolto, la Corte di Cassazione – nel respingere la tesi difensiva secondo cui la sua condotta non sarebbe stata idonea a dar causa alla detenzione, non essendo ravvisabile la colpa grave richiesta dalla legge per imputare la responsabilità -, ha ribadito che in tema di riparazione per l'ingiusta detenzione, il giudice di merito, per valutare se chi l'ha patita vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione, che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità.

Prima di soffermarci sulla, interessante, pronuncia resa dalla Suprema Corte, è opportuno qui ricordare che l’art. 314 c.p.p., nel fissare i presupposti e le modalità della decisione in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, afferma “1. Chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un'equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave. 2. Lo stesso diritto spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280. 3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, alle medesime condizioni, a favore delle persone nei cui confronti sia pronunciato provvedimento di archiviazione ovvero sentenza di non luogo a procedere. 4. Il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della custodia cautelare che sia computata ai fini della determinazione della misura di una pena ovvero per il periodo in cui le limitazioni conseguenti all'applicazione della custodia siano state sofferte anche in forza di altro titolo. 5. Quando con la sentenza o con il provvedimento di archiviazione è stato affermato che il fatto non è previsto dalla legge come reato per abrogazione della norma incriminatrice, il diritto alla riparazione è altresì escluso per quella parte di custodia cautelare sofferta prima della abrogazione medesima”.

Il diritto alla riparazione viene meno ove il soggetto sottoposto a misura cautelare ponga in essere, con dolo o colpa grave, una condotta che abbia nesso causale con l'applicazione, o il mantenimento, della stessa misura cautelare. Tale condizione ostativa al sorgere del diritto deve ritenersi limitata alla sola ipotesi della c.d. detenzione ingiusta (art. 314, 1° co.). Anche nelle fonti internazionali, e precisamente l’art. 3, protocollo 7, Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, concernente l'estensione della lista dei diritti civili e politici, adottato a Strasburgo il 22.11.1984, ratificato in Italia con L. 9.4.1990, n. 98, il diritto all'indennizzo viene meno ove sia provata la mancata rivelazione in tempo utile di fatti noti all'indagato ed in grado di vincere le ragioni di cautela (C., Sez. IV, 9.7.2009, in Ced Cass., n. 245311).

Esplicito è il richiamo ai principi generali di buona fede ed autoresponsabilità. Deve dunque essere valutata anche la condotta successiva al momento restrittivo della libertà personale e, più in generale, a quello della legale conoscenza della pendenza del procedimento penale, salvo il limite di intangibilità di scelta della strategia difensiva. Un comportamento mendace dell'imputato non può giustificare la domanda di riparazione se proprio da quel comportamento sia derivata la conferma - o la protrazione - della custodia cautelare (C., Sez. III, 17.2.2005, P.g. e Min. Economia in c. M., in Ced Cass., n. 231624; C., Sez. IV, 7.10.2003, T., in CEed Cass., n. 226729; C., Sez. IV, 24.3.1998, L., in Ced Cass., n. 210632; con riferimento al rifiuto di rispondere in sede di interrogatorio, C., Sez. IV, 18.3.2003, G., in Ced Cass., n. 224774; C., Sez. IV, 19.2.2003, M., in Ced Cass., n. 224576; C., Sez. IV, 9.5.2001, B., in CP, 2003, 204, 78). La colpa per essere qualificata come grave deve connotarsi per negligenza, imprudenza o trascuratezza macroscopiche e cioè tali da superare il comune buon senso (C., Sez. IV, 18.12.2002, E., in Gdir, 2003, 19, 102; C., Sez. IV, 24.1.1997, C., in Ced Cass., n. 207261; in questo senso C., Sez. III, 12.2.2004, D.S., in Ced Cass., n. 228527).

Tanto premesso, nel caso in esame, il titolo cautelare aveva tratto origine dagli esiti di intercettazioni telefoniche, telematiche ed ambientali, da cui si era desunto il coinvolgimento dell'istante nel sodalizio criminoso. La Corte d’Assise aveva assolto l’imputato per ritenuta mancanza di riscontri circa l'esistenza di un'associazione con finalità terroristiche nel territorio dello Stato, in difetto di una struttura stabile, idonea a realizzare una serie indeterminata di reati, dotata necessariamente di una corposità sociale indipendente rispetto alle persone e all'attività dei suoi membri, con ripartizione dei ruoli tra gli associati, vincoli gerarchici e regole di condotta da osservare. Il giudice della riparazione ha ritenuto che la sentenza assolutoria avesse accertato o comunque non escluso alcuni fatti che, pur essendo insufficienti a dimostrare la colpevolezza dell'istante, ne attestavano comunque un comportamento gravemente colposo, tale da lasciare supporre agli inquirenti che fosse coinvolto a pieno titolo nel reato ascrittogli. A tal fine quel giudice ha richiamato la sentenza assolutoria, nella parte in cui vi si affermava la mancata dimostrazione della esistenza di un sodalizio criminoso, ma - al più - di un mero accordo tra persone che parlano in termini criptici, si muovono con circospezione e cercano di sfuggire ai pedinamenti della polizia; che, esaminate, forniscono giustificazioni reticenti e scarsamente plausibili; che mostrano una chiara adesione all'ideologia islamica fondamentalista; che raccolgono denaro per la causa comune; che tengono contatti con persone operanti all'estero all'interno di organizzazioni responsabili di azioni violente, documentate da videocassette trovate in loro possesso; che dispongono, infine, di materiale propagandistico nel quale viene esaltata la lotta contro gli infedeli e si inneggia alle azioni violente e criminali dei kamikaze.

Alla luce di tali affermazioni, il giudice della riparazione aveva ritenuto, quindi, l'esistenza di comportamenti gravemente colposi, dai quali nella fase delle indagini preliminari ben poteva dedursi, da parte degli inquirenti, l'appartenenza dei soggetti inquisiti ad un'organizzazione terroristica internazionale. Con specifico riferimento all'istante, la Corte di appello aveva rilevato che costui si era volontariamente posto nella situazione di essere incriminato, innanzi tutto per la sua attività di navigazione in Internet (egli, Imam della Moschea di V., aveva visionato e scaricato del materiale propagandistico per la divulgazione della guerra santa e di natura didattica per l'addestramento dei combattenti; le pagine web erano state visionate sul computer sito nell'ufficio dell’interessato e da lui utilizzato; aveva reperito e distribuito materiale propagandistico relativo al progetto islamico jihadista sulla base delle conversazioni intercettate), comportamenti che la Corte di appello affermava non esser stati smentiti dalla sentenza assolutoria, essendosi il giudice di merito limitato ad affermarne la inidoneità a configurare una condotta associativa.

L’interessato aveva censurato l’ordinanza della Corte d’appello che aveva escluso il diritto alla riparazione ravvisando, nei predetti comportamenti, elementi ostativi all’insorgere del diritto.

La Cassazione, nell’enunciare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, in particolare rilevando che il ricorrente aveva censurato il provvedimento, contestando sostanzialmente la valutazione che quel giudice ha fatto di alcuni elementi pur emersi nel giudizio di merito e ritenuti dal giudice penale insufficienti ad integrare i presupposti del reato ipotizzato, da un lato affermando che tali comportamenti erano stati attribuiti a tutti gli imputati globalmente e non al ricorrente individualmente; dall'altro, contestando lo stesso passaggio motivazionale al quale ha fatto riferimento la Corte territoriale per ritenere confermati quegli stessi comportamenti. Tuttavia, così facendo, la parte aveva proposto una lettura alternativa degli elementi fattuali valorizzati dal primo giudice e da quegli ricavati dalla stessa sentenza di assoluzione, attraverso una motivazione del tutto logica, adeguata e coerente con gli elementi indicati, che precludeva ogni rivisitazione in sede di legittimità.

Da qui, dunque, il rigetto del ricorso.

La decisione in sintesi
Precedenti giurisprudenziali:

Cass. Pen., Sez. U, n. 34559 del 15/10/2002

Cass. pen., Sez. IV, n. 9212 del 25/02/2014

Riferimenti normativi:

Art. 314 c.p.p.

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