L’eutanasia è un diritto? Due posizioni a confronto

Dal 3 marzo 2016 sono in esame presso le commissioni riunite Giustizia e Affari sociali della Camera dei Deputati quattro progetti di legge (A.C. 1582, A.C. 2218, A.C. 2973 e A.C. 3336) in tema di eutanasia. Dopo i noti casi Welby ed Englaro, si è quindi ritenuto necessario il ricorso allo strumento legislativo: le proposte di legge mirano in particolare a disciplinare la responsabilità civile e penale del medico in  presenza  di  determinate  condizioni,  prevedendo  anche  cause  di  non  punibilità  del  personale medico-sanitario. Di seguito pubblichiamo le contrastanti e autorevoli opinioni del Prof. Cimbalo, favorevole all’introduzione di un c.d. “diritto a morire”, e del Prof. Gambino, che, invece, ne critica la fondatezza.

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Pro
75%
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Cimbalo Giovanni

Professore Ordinario di Diritto Ecclesiastico Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Scuola di Giurisprudenza

Contro
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Gambino Alberto M.

Professore Ordinario di Diritto Privato Università Europea di Roma - Prorettore

Pro

Cimbalo Giovanni

La morte è cambiata perché la vita è cambiata.  Una volta si diceva che è in salute chi non è malato Ma è mutato il concetto di salute, superando il limite della non malattia. Oggi essere in salute vuol dire che il proprio corpo ha acquisito e conserva un assetto che risponde a precisi canoni fisici, estetici, di efficienza e autonomia. E’ in salute un corpo capace di prolungare le funzioni riproduttive illimitatamente, se è esteticamente gradevole e consente di svolgere un determinato ruolo sociale, se dà la possibilità di vivere una vita prolungata nel tempo, in quanto a rappresentazione di se e capacità di vivere una vita di relazioni.

Perciò si interviene sul corpo correggendone l'aspetto; si neutralizza l'usura del tempo, si pone rimedio ai guasti della malattia, anche ricorrendo ai trapianti, si interviene geneticamente fin dalla fase prenatale per eliminare malattie genetiche.  Si ripara il corpo incidentato, come se fosse un'auto. Se si rompe un pezzo del corpo si acquista un pezzo di ricambio, non importa di quale provenienza, se occorre prendere un pezzo da altri per prolungare la vita o alcune funzioni basta avere denaro, si attinge al mercato dei morti e dei vivi, a chi non ha altro da vendere se non il proprio corpo. Su questo traffico fiorisce un’industria che non è a volte solo criminale, ma anche "legale". Il corpo è insieme occasione di profitto e strumento di profitto come la vita stessa.

Se si vuole essere belli e giovani si ricorre al chirurgo. La durata della vita si accompagna alla qualità della vita, vincendo ogni morale e remora: tutto diviene una questione di costi e di risorse economiche disponibili.

E' sinonimo di salute apparire giovani ed efficienti e non importa come questo risultato venga conseguito. Questa condizione serve a gestire il tempo vita come un bene economico, da collocare sul mercato ai prezzi più alti, con ricarichi enormi per chi investe nel settore.

Uno degli effetti – e nemmeno quello più socialmente rilevante – è il prolungamento della vita, a volte oltre ogni ragionevole aspettativa e la morte, raramente avviene per "cause naturali", in quanto la sua fase finale, a prescindere dalla malattia, si è ospedalizzata, è gestita dai medici e dalla struttura ospedaliera e sanitaria. Il venir meno della famiglia come struttura sociale di sostegno fa sì che all'avvicinarsi dell'età avanzata o della malattia il soggetto venga allocato in una struttura socio sanitaria, la sola in grado di gestire la sua vita ormai medicalizzata o affidato alle cosiddette badanti con un’assistenza medica domiciliare. D’altra parte siamo di fronte all’affermarsi dell’individualismo come valore sociale che mette in ombra gli aspetti solidaristici del vivere sociale, legati piuttosto a una morale collettiva che faceva riferimento a un'etica del lavoro considerata ormai desueta.

Questa diversa concezione della vita fa sì che la morte venga desiderata anche prima e a prescindere dal termine biologico della vita.  Perciò  si spostano i termini e il significato della richiesta di morte come risposta a una vita che chi ne è titolare considera ormai inutile, non meritevole di essere vissuta.

Una risposta pratica a questo stato di cose è costituita dalla legalizzazione in alcuni paesi dell'eutanasia attiva, richiesta a prescindere dal venir meno delle possibilità biologiche di  esistenza in quanto le ragioni di vita dipendono da una scelta individuale. Ciò pone numerosi problemi etici sulla liceità di questa scelta. Mentre ormai ovunque è accettata l’eutanasia passiva o indiretta, magari sotto forma del rifiuto dell'accanimento terapeutico, è in corso una riappropriazione del bene vita da parte dell'individuo per sfuggire alla coercizione alla vita, in netto contrasto con quegli ordinamenti giuridici che considerano la vita un bene indisponibile.

Di fronte a questo problema l’ordinamento giuridico italiano ha scelto di non affrontarlo, rifiutando  perfino l’idea di una legge sul fine vita, tanto che le proposte presentate giacciono nelle Commissioni parlamentari e negli archivi del Parlamento, e questo mentre il Paese e la magistratura si ingegnano a trovare soluzioni, perché i “fatti della vita” lo impongono.

Mentre la medicina del fine vita allontana nel tempo il più possibile la morte, con la solita ipocrisia cattolica, il più delle volte si cerca la complicità del medico e delle strutture sanitarie per interrompere la cura, e questo senza alcuna garanzia per il malato; in molti casi i comitati etici delle strutture sanitarie sono chiamati a scegliere su dove concentrare le risorse finite del sistema sanitario, per cui ancora una volta l’evolversi degli eventi priva di garanzie la persona, la quale, se cosciente, può certo interrompere la cura ai sensi dell’art. 32 della Costituzione, lasciando il nosocomio nel quale è ospitata o decidere per tempo di ricorrere alla nomina dell’amministratore di sostegno per garantirsi, in caso di sopravvenuta incapacità, l’esecuzione delle proprie volontà. In tal modo dovrebbe almeno essere garantita la possibilità di sottrarsi a cure invasive e devastanti.

Si tratta ovviamente di un cammino accidentato e doloroso, come dimostrano casi eclatanti, come quelli di Eluana Englaro e di Giorgio Welby e delle tante silenziose vittime delle ipocrisie della classe politica, a meno che non si scelga la strada dell’espatrio, del rifugio sotto la protezione di un altro ordinamento.

La politica fa di questo problema l’occasione di uno scontro ideologico ed etico, paventando il rispetto di orientamenti religiosi da imporre ad altri, invocando un’etica di Stato che imporrebbe il vivere contro ogni desiderio e la scelta della persona, e questo anche quando è venuta meno ogni manifestazione di vita di relazione, quando è la persona che chiede di morire.

E’ forse giunto il tempo di rimodulare la nostra visione della società, adottando in campo morale a livello istituzionale il pluralismo etico, in modo che, fatti salvi alcuni punti che costituiscono un minimo denominatore comune, sia lasciata a ognuno la libertà di scelta in campo morale e etico.

Se è così forte il desiderio di solidarietà e di sostegno alla vita ad ogni costo non è forse il caso di proporre e realizzare reti di solidarietà per far fronte al crescente individualismo nella gestione stessa della vita e del corpo, e questo non solo quando sopravviene la malattia e la vecchiaia, ma anche nel pieno vigore della vita di ognuno?  Invece la solidarietà è scomparsa e la salute e l’efficienza fisica sono la pre condizione di rapporti sociali competitivi, improntati alla concorrenza, alla competizione, al profitto a ogni costo.  L’aiuto a scegliere la vita passa perciò necessariamente dal ripristino delle ragioni che rendono la vita degna di essere vissuta. E’ la nostra incapacità nel cambiare le condizioni del vivere che determina la nostra posizione davanti alla morte. Perciò, bisogna restituire dignità alla vita, dopo di che si può ritornare a distinguere vagliando i casi e le condizioni per scegliere la morte. 

Malgrado ogni sforzo rimangono tuttavia delle condizioni di degrado della vita e in queste situazioni, meglio una legge, equilibrata, ben strutturata, che fornisca ogni garanzia per il rispetto della volontà della persona, dotata di tutti gli strumenti che il diritto conosce per evitare ogni interferenza nella gestione di un bene personalissimo. il bene vita, piuttosto che nessuna legge.

La garanzia della volontarietà della richiesta è essenziale insieme all’accertarsi dell’ineluttabile avvicinarsi dell’evento, che va clinicamente verificato, come va reso noto al soggetto l’intensità del dolore e della sofferenza morale, anche derivante dalle condizioni materiali del vivere, in modo che la scelta che egli adotterà sia responsabile e cosciente.

A rendere efficace e credibile una eventuale legge sul fine vita deve essere la costante monitorizzazione della sua applicazione per poter apportare via via tutti quei correttivi necessari a migliorare l’efficacia del provvedimento in ordine alla tutela della volontà del malato, alle cure prodigate, all’assistenza predisposta, alle condizioni di vita anche relazionali di chi si affida alle strutture ospedaliere e sociali.

Coloro che si oppongono all’eutanasia dovrebbero essere tra i primi a proporre e rendere operative  iniziative per far fronte al crescente individualismo nella gestione stessa della vita e del corpo, anche se, per quanto riguarda le implicazioni morali e religiose di una scelta eutanasica evidentemente nessun rilievo può essere fatto su una scelta autonoma del malato che, affinché sia libera, deve poter essere consapevole di quali sono le alternative,

Ebbene è qui che si gioca la capacità e la responsabilità della società che deve saper offrire visibili reti di sostegno e cura, capacità di accudimento, una rete di solidarietà, di amore e affettività che induca a scegliere la vita, che a queste condizioni diventa vita di relazioni.

E’ forse giunto il tempo di rimodulare la nostra visione della società, adottando in campo morale a livello istituzionale il pluralismo etico, in modo che, fatti salvi alcuni punti che costituiscono un minimo denominatore comune, sia lasciata a ognuno la libertà di scelta in campo morale e etico. Tra la vita e la morte.

E allora va dato spazio all’informazione del malato  assicurandogli la massima conoscenza del decorso della malattia, delle sofferenze alle quali andrà incontro, della qualità della vita che potrà avere, e tutto questo anche prima che la malattia intervenga in modo tale che egli possa disporre di se quando è ancora cosciente per prevenire gli effetti invalidanti delle sue capacità decisionali. Questo significa dare efficacia giuridica al living will anche attribuendo a una persona di sua fiducia la possibilità di decidere in sua vece e nel rispetto delle sue volontà quando si è di fronte a incapacità sopravvenuta. Una regolamentazione efficace del processo eutanasico non può prescindere dal riconoscimento dell’obiezione di coscienza. E’ perciò che fin dal momento dell’assunzione le amministrazioni sanitarie devono richiedere la disponibilità a eseguire procedimenti eutanasici e in caso di sopravvenuta indisponibilità e obiezione di coscienza devono avere l’obbligo di destinare al servizio nelle strutture di sostegno ai malati terminali tale personale in modo da evitare rendite di posizione nell’esercizio della professione di medici e paramedici.

Contro

Gambino Alberto M.

I fautori dell'eutanasia muovono comunemente le loro convinzioni partendo da tre postulati: a) che ciascun cittadino possegga un diritto assoluto all’autodeterminazione; b) che la vita non sia un bene indisponibile essendo previsto il diritto costituzionale al rifiuto delle cure; c) che il rifiuto di cura possa estendersi anche al rifiuto di presìdi vitali relativi ad alimentazione e idratazione.

I tre postulati a loro volta, per non rimanere sterili petizioni di principio, si collegano all'assioma secondo cui la libertà individuale si deve sempre tradurre in vere proprie pretese giuridiche che obbligano l’ordinamento a conformarsi ad esse. Si rifiuta, in altri termini, la distinzione tra libertà e diritto positivo, ius positum, regola cioè posta dallo Stato per disciplinare situazioni sociali facendole emergere dall’indifferenza normativa.

Proprio partendo da quest'ultima considerazione, occorre allora mettere a fuoco con compiutezza l'esatta relazione tra le libertà individuali e i beni giuridici fondamentali.

Mentre la libertà individuale gioca il suo ruolo sul piano morale ed è lasciata all'agire del singolo cittadino, quando si entra sul piano del diritto è l'ordinamento stesso a dare rilevanza a interessi che assumono il rango di pretese giuridiche, distinguendoli da quegli interessi che rimangono nell'alveo della libertà.

Ora il caso della volontà-libertà di determinare scelte di fine vita non ha attualmente nel nostro ordinamento la portata di "pretesa giuridica", ma cozza contro disposizioni di legge a tutela della vita umana, con la conseguenza che se qualcuno oggi ponesse fine ad un'esistenza umana per assecondare il volere del malato incorrerebbe nella commissione di reati come l’omicidio del consenziente o il suicidio assistito. Non esiste dunque allo stato della legislazione italiana un diritto assoluto all’autodeterminazione, ma potrebbe collocarsi in una prospettiva de iure condendo?

L'idea sottesa a questa prospettiva è che il nostro ordinamento debba sempre ritenere "assoluta" la volontà dei consociati, salvo che questa non si scontri con altre libertà, e che giammai possa ritenersi prevalente un bene, che per quanto generale, sia in contrasto con tale volontà. Non è però questo il paradigma seguito dai sistemi costituzionali di stampo democratico, fondati sulla dignità (e non sulla

volontà) della persona. Un esempio meno pregno di conflittualità è

chiarificatore: anche se un dipendente volesse lavorare ventiquattro ore al giorno ciò non è consentito dall'ordinamento in quanto va contro la dignità e l'integrità fisica della persona.

Anche la critica alla contraddizione tra vita quale bene indisponibile e diritto - ma più correttamente “libertà” - di rifiuto delle cure sconta la stessa impostazione. L'espressione "indisponibile" per il diritto significa che "non si può trasferire" e non certo che non si può esercitare personalmente quel diritto. Infatti i c.d. diritti di libertà sono tali solo se esercitati personalmente, se si cedessero ad altri smarrirebbero la loro ragion d’essere. Si pensi alla libertà di

pensiero: potrei forse spogliarmene e trasmetterla a un altro? Proprio con riferimento al rifiuto di cura, la giurisprudenza di legittimità italiana afferma che la validità di un consenso preventivo ad un trattamento sanitario è esclusa in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso, e, d’altro canto, l’efficacia di uno speculare dissenso 'ex ante', privo di qualsiasi informazione medico terapeutica “deve ritenersi altrettanto impredicabile sia in astratto che in concreto, qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo pienamente''

(Corte di cassazione 15 settembre 2008, n. 23676, successiva alla decisione sul caso Englaro, datata 2007). Cosa che evidentemente non si può liberamente e consapevolmente fare prima del verificarsi del trauma e dell’informazione sulle ipotetiche terapie, sempre legate alla situazione contingente e allo stato fisiologico del paziente.

Si tratta di quelle che la giurisprudenza distingue tra situazioni di “giudizio”, scelte libere e consapevoli del paziente davanti al trauma e alle sue possibili cure, e situazioni di “precomprensione”, in cui si simula cosa avrebbe effettivamente voluto il paziente caduto in stato di incoscienza se avesse saputo di trovarsi davanti ad un certo evento traumatico e a certe correlate terapie.

Secondo questa giurisprudenza di legittimità, la prima situazione è legittima, mentre la seconda non è percorribile e dunque non può obbligare i medici a dare seguito a scelte presunte del paziente in ordine a ipotetici rifiuti di cure. In questi casi, dunque, prevalendo lo stato di necessità, davanti ad un ricovero urgente per una vicenda traumatica, il medico deve intervenire.

Ed è appunto questo il bilanciamento che l’ordinamento opera tra vita quale bene giuridico in sé e libertà di rifiutare le cure. Solo una soluzione legislativa che si instradasse su tale solco sarebbe in piena armonia con quanto il sistema giuridico italiano già indica.

Anche i presìdi relativi all’alimentazione e alla idratazione parenterale  sono conformi all’art. 32 della Costituzione. Come detto, infatti, è oggi del tutto legittimo, anzi doveroso, in caso d’urgenza attivare protocolli che prevedano il sostentamento.

Una volta attivato, ove l'organismo di un paziente incosciente sia in grado di assorbire i liquidi vitali, l’interruzione del presidio altro non sarebbe che un modo per provocare la morte di un essere umano.

Ciò è quanto avvenuto nella vicenda Englaro, il cui esito è stato però disegnato da una sentenza dei giudici e non da una scelta ordinamentale.

Si tratta eventualmente di riconsegnare al Parlamento la prerogativa costituzionale di disciplinare una questione di forte impatto sociale, come le scelte di fine vita, disinnescando l’incedere di altre possibili decisioni giurisprudenziali di stampo creativo.

L’art 32 della Costituzione non si esprime nel senso di un diritto assoluto all’interruzione della cura (dunque esprimibile ora per allora o, addirittura, per interposta persona), ma in modo diverso: "nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario"; il che appunto significa che a nessuno può essere imposto coattivamente un trattamento non richiesto, fuori evidentemente dai casi di urgenza.

Si tratta in definitiva di attivare percorsi di condivisione terapeutica tra paziente e medico che si muovano entro i confini - opposti - dell'accanimento, da un lato, e dell'abbandono terapeutico e della deriva eutanasica, dall'altro.

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